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L’elusivo calcolo dell’altruismo e la selezione parentale – parte 3 (ultima)

Il modo in cui può essersi evoluto il comportamento cooperativo di formiche, api e altri insetti continua a sfidare l’analisi formale. Ma una nuova teoria – che include la diversificazione dei rischi di fronte all’imprevedibilità della natura – può aiutare a cambiare gli strumenti matematici usati per analizzare il fenomeno e far progredire le conoscenze

di Jordana Cepelewicz / Quanta (da Le Scienze del 21.04.2018)

Come l’incertezza favorisce l’altruismo

I  ricercatori hanno notato esempi controintuitivi di cooperazione in natura che non sembrano adattarsi alla regola di Hamilton: per esempio, individui che, invece di avere una propria prole, vanno in aiuto di individui con cui non hanno una stretta parentela. A volte il comportamento altruistico si presenta come incredibilmente dispendioso e non sembra nemmeno migliorare molto la sopravvivenza dei discendenti dei parenti, se pure la migliora. In una specie di ape descritta come facoltativamente sociale (gli individui possono scegliere se vivere o meno in colonie), i ricercatori hanno scoperto che il successo riproduttivo degli individui solitari era quasi doppio di quelli sociali.

Molte di queste situazioni altruistiche sembrano verificarsi in ambienti imprevedibili od ostili. Così un team di ricercatori – guidato da Seirian Sumner, ecologo comportamentale all’University College di Londra, e Patrick Kennedy, specializzando all’Università di Bristol – ha cercato di estendere la regola di Hamilton per dar conto di queste eccezioni, intrecciandola con il concetto di diversificazione dei rischi (bet hedging).

Si tratta di una strategia di gestione del rischio che in precedenza non era stata formalmente collegata a modelli matematici di comportamento di aiuto.

L’intuizione chiave di Sumner e Kennedy è stata che quando gli scienziati usano la regola di Hamilton, di solito basano i loro calcoli di fitness sul numero medio di prole che gli individui produrrebbero, misurato in natura. Ma il modello ignora il fatto che le variazioni casuali nell’ambiente rendono molto volatile il numero effettivo di discendenti. Quando le condizioni variano drasticamente – se il cibo scarseggia un anno e quello successivo è abbondante, o se i parassiti delle nidiate si diffondono a un’intera popolazione o il clima oscilla tra gli estremi – variano anche i benefici della cooperazione. Un parametro migliore per valutare la forma fisica potrebbe quindi essere la varianza del numero di discendenti generati.

In altre parole, può essere più importante che il successo riproduttivo di un individuo sia coerente in media, invece che semplicemente superiore a quello di altri. In un ambiente incerto, il valore della diversificazione dei rischi legata all’aiutare gli altri inizia a sembrare una strategia molto più attraente: migliora le probabilità che alcuni geni condivisi sopravvivano anche se la stirpe di un individuo muore. L’allocazione di un po’ di energia nell’aiuto ad altri, anche a spese di un maggiore successo riproduttivo, funziona quindi da polizza assicurativa.

Sumner, Kennedy ed i loro colleghi hanno trovato che l’incertezza nell’ambiente, da sola, potrebbe abbassare la soglia a cui gli individui devono iniziare a cooperare. “I geni che vincono nel lungo periodo potrebbero non portare al maggior numero di discendenti in media”, ha detto Kennedy, “ma a una riduzione della varianza del loro numero”.

Sheng-Feng Shen, ricercatore associato all’Accademia sinica di Taiwan, ritiene che i risultati di Sumner e Kennedy aiuteranno i futuri modelli della fitness inclusiva a somigliare ai modelli basati sulle dinamiche della popolazione. “Questo articolo mostra perfettamente perché c’è dibattito tra i due modelli”, ha detto: Sumner e Kennedy hanno collocato la regola di Hamilton più in linea con le considerazioni biologiche ed ecologiche avanzate dai critici della teoria della fitness inclusiva.

Termites’s hill Moremi NP Botswana – Termitaio. (© Biosphoto / AGF)

Sarà necessario un lavoro empirico sul campo per testare quali ambienti favoriscano maggiormente il comportamento cooperativo e in che misura esso sia guidato dall’imprevedibilità ambientale. Ma Shen dice anche che la teoria deve essere ulteriormente ampliata. Per esempio, il modello attuale presuppone che le generazioni non si sovrappongano. Questo presupposto funziona per le comunità microbiche, i biofilm e organismi simili, ma deve essere affinato per descrivere accuratamente la cooperazione tra vertebrati.

Il nuovo modello potrebbe essere applicato anche alla ricerca sulla selezione parentale nelle piante. Susan Dudley, ecologa evolutiva alla McMaster University, in Canada, ha fatto l’esempio della Cakile dei Grandi Laghi, una pianta che produce semi con diversi meccanismi di dispersione: alcuni dei suoi discendenti finiscono a vivere da soli, ma altri si insediano in gruppi che possono essere costituiti da piante parenti o meno. “Sarebbe un bel sistema [rispetto al quale] considerare congiuntamente la diversificazione dei rischi e la selezione dei parenti”, ha detto.

E se questa estensione della regola di Hamilton si concentra su ciò che potrebbe guidare gli organismi verso il comportamento sociale, potrebbe anche fornire ulteriori approfondimenti su come è emerso il comportamento eusociale molto più stringente di api, formiche e altri insetti.

L’importanza della monogamia
Anche se l’ipotesi dell’aplodiploidia è stata smentita, i ricercatori hanno continuato ad attingere ai rapporti di parentela e alla regola di Hamilton per spiegare l’eusocialità tra gli insetti sociali. Oggi, la teoria dominante, formulata da Jacobus Boomsma, biologo evoluzionista all’Università di Copenaghen, ritiene che sia stata la monogamia femminile a causare l’eusocialità. Nelle formiche, nelle api e nelle vespe, per esempio, la regina della colonia si accoppia con un solo maschio: durante il solo “volo nuziale” è in grado di immagazzinare spermatozoi da usare per tutta la sua vita riproduttiva. Le termiti, che non possono fare altrettanto, hanno un re accanto alla regina della loro colonia.

Poiché tutti i membri di una colonia o di un alveare hanno gli stessi genitori, gli individui condividono con i fratelli, in media, il numero di geni che avrebbero con qualsiasi progenie: in termini hamiltoniani, r ha un valore medio di ½ in entrambi i casi ( questo rimane vero anche per gli organismi aplodiploidi, poiché i valori di r ¾ e ¼ rispettivamente di sorelle e fratelli, danno come media ½). Di conseguenza, anche il minimo beneficio tratto dall’agire altruisticamente è sufficiente per far pendere la bilancia verso l’evoluzione sociale e le caste invece che verso la generazione di prole. “Solo un rigoroso impegno per tutta la vita dei genitori lascia prevedere un vantaggio nell’impegno incondizionato all’altruismo riproduttivo”, mi ha scritto Boomsma in una e-mail.

Finora, la teoria della monogamia è stata suffragata da ricerche sulle storie evolutive degli organismi eusociali: gli antenati di formiche, vespe e api eusociali moderne – e così pure gli antenati di gamberi eusociali del genere Cragnon che abitano nelle barriere coralline al largo delle coste del Belize – erano monogame.

Ma anche così, “ci sono un sacco di sottigliezze nel modo in cui si formano queste gerarchie di dominanza e nel modo in cui quelle società conservano la loro stabilità”, ha detto Sandra Rehan, biologa all’Università del New Hampshire. “E’ tutto molto più sfumato rispetto al semplice dire “è qualcosa di sociale” o “è qualcosa di eusociale””.

Forse i rapporti di parentela da soli non sono sempre sufficienti per spiegare l’eusocialità. L’ipotesi della monogamia predice le condizioni necessarie a trasformare il semplice comportamento cooperativo in eusocialità e la creazione di gerarchie di individui che non si accoppiano mai. Ma che cosa rende alcune specie mature per questa transizione irreversibile?

È qui che il lavoro di Kennedy potrebbe aiutare a far progredire la nostra comprensione del fenomeno. Kennedy pensa che sarebbe illuminante esaminare come la volatilità ecologica possa influenzare i costi e i benefici coinvolti nell’evoluzione dell’eusocialità. E’ possibile che i cambiamenti casuali nell’ambiente abbiano stimolato l’eusocialità primitiva; secondo Kennedy si ptrebbe forse scoprire se è così esaminando quelle specie facoltativamente sociali che hanno ancora una scelta sul modo in cui cooperare. “Non tutti i monogami [formiche, api e vespe] hanno evoluto l’eusocialità”, ha detto Gardner. “Questo tipo di considerazioni sulla volatilità ambientale potrebbe in linea di principio spiegarne il motivo”.

La chimica della coesione sociale
La regola di Hamilton ha ancora un ruolo significativo, e in espansione, nell’indrizzare le ricerche sulle popolazioni sociali ed eusociali, anche se ha dei limiti. Ma da sola non basta. Se Shen ha esaminato come integrare aspetti della dinamica delle popolazioni nel contesto della fitness inclusiva, vanno considerate anche altre direzioni di ricerca, che ampliano il quadro.

Alcuni ricercatori non si limitano a sondare l’origine dell’eusocialità, ma esplorano anche gli eventi genomici che hanno cementato i dettagli dell’eusocialità dopo la sua evoluzione.

Un articolo su “Nature Ecology & Evolution” di febbraio, per esempio, ha analizzato i genomi delle termiti e degli scarafaggi, antenati non-eusociali delle termiti. Gli autori hanno scoperto che quando gli scarafaggi si sono evoluti, il numero di geni codificanti per una specifica classe di proteine chiamate recettori gustativi, si è enormemente espanso. Poi, quando si sono evolute le termiti, esse hanno dato a questi recettori nuovi compiti. Se prima erano solo uno strumento per percepire gli indizi chimici nell’ambiente, ora quei recettori avevano acquisito funzioni più specifiche per la rilevazione di segnali associati alle attività delle termiti, come l’alimentazione, la deposizione delle uova o il comportamento aggressivo.

Formiche, api e vespe hanno evoluto l’eusocialità 50 milioni di anni dopo le termiti, ma ricerche precedenti hanno mostrato che questi insetti hanno fatto qualcosa di molto simile con una diversa classe di proteine, chiamate recettori olfattivi. “L’evoluzione sociale si è evoluta in modo indipendente due volte negli insetti, ma ha intrapreso un percorso molto simile”, ha detto Erich Bornberg-Bauer, biologo molecolare all’Università di Münster in Germania, e coautore dello studio. Questa somiglianza mostra quanto il comportamento sociale dipenda dal riconoscimento chimico, almeno negli insetti.

Al momento, questo tipo di lavoro sui meccanismi di base che consentono il comportamento sociale rimane separato dalle ricerche di Kennedy e altri per comprendere quali pressioni evolutive lo abbiano innescato. Per esempio, non è chiaro se le capacità chemiosensoriali delle termiti si siano evolute perché erano utili in modo specifico per aiutare i parenti. “Non è qualcosa che possiamo determinare attraverso semplici confronti genomici”, ha detto Xavier Bellés, biologo all’Istituto di biologia evolutiva di Barcellona e anch’egli coautore dell’articolo. Osserva, per esempio, che il genoma dello scarafaggio da loro analizzato potrebbe produrre il doppio di proteine rispetto ai genomi delle termiti che hanno sequenziato, anche se le termiti sono socialmente molto più complesse.

Un ostacolo enorme alla comprensione dell’evoluzione sociale ruota riguarda il modo in cui porre in relazione queste intuizioni. Collegando le forze evolutive che a gscono a grande scala a quelle che operano a una scala più piccola modellando i cambiamenti nel genoma – un obiettivo ancora molto lontano – i ricercatori potrebbero finalmente risolvere il mistero dell’eusocialità. Per ora, perfezionare una descrizione matematica unificata sembra un buon primo passo.
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(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 10 aprile 2018 da QuantaMagazine.org, una pubblicazione editoriale indipendente online promossa dalla Fondazione Simons per migliorare la comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione autorizzata, tutti i diritti riservati)


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Pubblicato da Gianluca Doremi

Durante la mia infanzia ho sviluppato e manifestato la passione per il "piccolo mondo" che mi ha portato alla scoperta della natura con l'entusiasmo che solo un bambino può avere. Con l'età adulta ho alimentato ulteriormente questa mia passione implementandola con l'ausilio della fotografia e dei video. Alle immagini ora ho aggiunto lo studio e la ricerca su questo fantastico mondo.

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